L'eruzione del Vesuvio del 79 d. C., sconvolse, per le catastrofiche dimensioni, mare e terre di questo estremo lembo della provincia partenopea. Era ormai fine estate, il nono giorno prima delle calende di settembre, cioè il 24 agosto, secondo i più, quando, verso le ore undici un pauroso boato fa scuotere la terra e dal Vesuvio s'innalza una grande colonna di fuoco che poco dopo si trasforma in fumo e cenere a forma di pino. Poi giù irrefrenabile pioggia di cenere e lapilli, frammisti a gas venefici (solforosi e cloridrici). Dopo una breve pausa, cadono ancora grandi pietre pomici incandescenti che terrorizzano soprattutto gli abitanti dell'area vesuviana, certamente abituati ai sussulti della terra e dei terremoti, come quello verificatosi diciassette anni prima, ma non a un cataclisma di tale natura, durato circa una settimana (secondo i calcoli, dal 24 al 29 agosto). Questo È ciò che scrive Plinio il Giovane - testimone oculare della tragedia - allo storico latino Tacito, in due lettere.
Nei primi giorni di settembre del 79, d.C., dunque, cessate le ostilità dello sterminator Vesevo, intere città e villaggi, giacevano sotto una pesante coltre bianca di cenere e lapillo.
Passati i momenti di sbigottimento molti, sfuggiti alla catastrofe, ritornarono certamente sul posto per frugare e recuperare qualcosa rimasta, ma in quel primo tentativo nulla fu possibile a causa dell'impraticabilità del suolo. Intanto la notizia dell'eruzione e del disastro prodotto, giunge a Roma, dove, peraltro, si notavano anche ceneri e polvere spinte dal vento. Il governo imperiale inviò nelle zone disastrate una commissione senatoriale che, dopo accorti sopralluoghi, secondo alcuni, o abbastanza superficiali, secondo altri, decise di promuovere la ricostruzione solo di quei centri parzialmente sinistrati (non conosciamo certamente i nomi di altre cittadine e villaggi, forse lontani dall'area vesuviana). Pompei si trovava sepolta sotto 4-6 metri di materiale vulcanico, Ercolano era scomparsa sotto una valanga di fango e di Stabia affioravano le parti più alte di fabbricati scoperchiati e danneggiati. Perciò si decise di non provvedere ad alcun intervento di ristrutturazione. Lo Stato riuscì a recuperare ciò che era possibile: marmi, colonne, capitelli, trabeazioni, statue, mentre, questa volta, i superstiti, aiutati dalle soldatesche e dagli schiavi inviati sul posto, cercarono di recuperare le loro suppellettili e i corpi dei parenti morti. Il resto fu risotterrato. Passarono i secoli, l'humus tornò a ricostituirsi e campi di fave, piselli e vigneti lussureggiavano nuovamente sull'ampia pianura soprattutto di Varano e delle campagne di Pompei.
Intanto, si arriva al Settecento, i continui rinvenimenti di pezzi di intonaci decorati, di vasellame, di "oscura provenienza" (già annotati nel Cinquecento dall'Anonimo Stabiano), incuriosivano coloni, studiosi, e perché no, anche antiquari che smerciavano a buon prezzo quanto capitava nelle loro mani. Così il re Carlo III decise di promuovere una vasta campagna di scavi, risultata però proficua quanto disarticolata. Il 26 maggio del 1738, il colonnello Rocco Gioacchino de Alcubierre, comandante del Genio del Regno di Napoli, iniziò uno scavo ad Ercolano a seguito di molte segnalazioni di rinvenimenti di reperti antichi, e, dopo i primi colpi di piccone, tra pozzi e gallerie, vennero fuori straordinarie scoperte. Nel 1748 (23 marzo), l'Alcubierrre iniziò anche lo scavo di Pompei (che fino al 1763 si credette essere l'antica Stabiae, unica città nominata nelle lettere di Plinio in relazione all'evento vulcanico). Qui, a seguito di varie vicende, gli scavi, con qualche interruzione continuarono e continuano tuttora come in altre località.
Gli scavi di Gragnano (Stabia) ebbero cominciamento il dì 7 giugno 1749 con sei uomini ed un capo maestro nelle vicinanze del Ponte di S. Marco, dove in quel giorno medesimo s'incontrarono due vasi grandi e due piccoli di bronzo...", ecc., (Ruggiero). A Stabia, "si scavò per ventidue anni: quattordici dal 1749 al '62 ed otto dal 75 all'82, ma come portava la condizione del tempo e la qualità degli uomini che ne ebbero le prime cure - aggiunge il Ruggiero - piuttosto ad uso dei cercatori di antichità che di studiosi d'arte e di archeologia".
Gli archeologi addetti agli scavi (condotti senza alcun rigore scientifico; diretti da ingegneri militari e affidati a monodopera occasionale), avevano un solo scopo: sterrare una grande quantità di ambienti, prendere quanto ritenuto "buono per il museo di Portici (e per il Re che tante volte regalava pezzi pregiati a principi e personaggi stranieri); rilevare precise e dettagliate piante dei fabbricati, di cui ancora oggi ci serviamo, distruggere quanto ritenuto di "scarsa importanza" e ricoprire poi tutto alla meglio allo scopo di evitare illeciti traffici tra mercanti di Napoli e di Roma. Poi il re Carlo di Borbone indennizzava i proprietari delle terre per i danni arrecati alle colture e la località veniva abbandonata definitivamente.
I Borbone, scavarono molti edifici. Dei più grandi, almeno 19, hanno lasciato precise piante compreso le mappe riguardanti le reti stradali che ancora oggi costituiscono l'unica fonte documentale di consultazione per conoscere la posizione e le dimensioni delle antiche architetture sepolte. Senza il lavoro dei tecnici reali, sarebbe stato pressoché impossibile procedere all'individuazione e conoscenza delle planimetrie.
Passano ancora molti decenni e, sull'arioso poggio di Varano, come dice Maiuri, crebbe una selva di vigneti e di agrumeti; cellai e cisterne si installarono nei calidari e nei frigidari delle antiche ville, e sul ciglio di quell'altura al di sopra di un cubicolo o di un'esedra di riposo si costruì un loggiatino di belvedere per godere lo stesso panorama che Cicerone avrebbe voluto godere con l'amico suo stabiese Marco Mario.... Nell'Ottocento furono costruite su queste stesse terre molte belle masserie, ma furono anche distrutte case e strade antiche.
E passiamo poi a metà Novecento per ricordare che Stabia è la terza città rimasta sepolta dall'apocalittica eruzione. Le altre due (chi non lo sa?) sono, come abbiamo già detto, Pompei ed Ercolano che hanno avuto maggiore fortuna.
La ripresa degli Scavi di Stabia, iniziò nel 1950 per iniziativa del preside Libero D'Orsi, il quale, contrariamente ai suoi illustri predecessori che studiarono a lungo e illustrarono i reperti archeologici e le altre antichità stabiane, con grande sacrificio e caparbietà, richiamò innanzitutto l'attenzione delle autorità comunali, riuscendo ad ottenere il loro tangibile appoggio e dallo Stato, attraverso le soprintendenze, prima quella di Napoli e poi di Pompei, anche dei finanziamenti per i vari interventi. D'Orsi - che per il suo lungo e costante impegno deve essere considerato il vero benefattore dell'archeologia stabiana - seguendo le orme degli scavatori borbonici - ha riportato alla luce, almeno tre stupende ville che nel corso di questi ultimi decenni le soprintendenze competente per territorio, hanno ristrutturato e organizzato i siti archeologici.
Il preside D'Orsi - sempre sull'onda di un "giovanile entusiasmo" (v. A. Ziino: "Stabiae, Prospettive Archeologiche", C&T. - Pompei, 1966, con prefazione del soprintendente professor Alfonso De Franciscis) - all'indomani di ogni rinvenimento (un vaso importante, un affresco, un bronzo), convocava i tre, quattro cronisti locali, i quali, ricevendo la stessa carica di entusiasmo, pubbicavano sui giornali articoli e foto (e giova ricordare che la valorizzazione del patrimonio artistico è strettamente legato all'opera di divulgazione dei giornalisti, attraverso i mezzi di comunicazione).
IMPORTANZA ARTISTICO-CULTURALE DEGLI SCAVI STABIANI
Dopo il grande lavoro del preside D'Orsi, che, superando ostacoli e difficoltà (che solo i cronisti del tempo ricordano), riuscì a riportare alla luce parti di almeno tre complessi residenziali sul poggio di Varano, su di un'area di circa 45 mila metri quadrati, allestendo nel contempo anche l'Antiquarium (poi diventato statale con tutti i benefici di legge, ma attualmente chiuso). In questi decenni, purtroppo, è mancato un vero interesse per l'archeologia stabiana.
Mentre, un discorso a parte merita certamente Pompei, in quanto è l'unico monumento al mondo che documenti la vita di una città romana in pieno rigoglio commerciale e culturale. Ercolano, con le sue meraviglie stupisce il mondo, Stabia, secondo noi, non ha ottenuto il successo che già meritava, considerata la riconosciuta importanza che riveste nel panorama dell'archeologia mondiale.
Infatti, per Stabiae è significativo il giudizio di uno dei più noti archeologi, già soprintendente, Alfonso De Franciscis: Stabia, egli ci ha detto, ha una funzione importantissima perché essa è l'unica che presenta un tipo di architettura, un tipo di pittura parietale e un modo di vivere, che le altre città seppellite dal Vesuvio non ci fanno conoscere. Altrettanto lusinghiero il giudizio di un altro grande studioso: il professor Giulio Carlo Argan, che, nel corso di una visita all'Antiquarium Stabiano, ebbe a dire, tra l'altro, "... qui c'è la più bella raccolta di pittura romana esistente al mondo...".
Il tecnico delle vespe vicino alle vittime della Tragedia del Faito. «Sono cose che ti segnano dentro. Contro i blucerchiati serviranno voglia di giocare a calcio e ritmo. Adorante? Qualche piccolo acciacco, vedremo se rischiarlo.»
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