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Dalle 5W alle 5C, la comunicazione digitale rivoluziona il giornalismo e il suo linguaggio.

L’interazione con i lettori e l’approccio social stanno ridefinendo il contesto con cui i giornalisti devono oggi rapportarsi.

tempo di lettura: 20 min
di Gioacchino Roberto Di Maio
19/08/2018 09:27:02

Foto Google

La rivoluzione linguistica digitale partì al tramonto degli anni ’90 con la diffusione degli SMS, acronimo di Short Message Service. Vigeva un limite di esposizione verbale di circa 160 caratteri che costrinse gli utenti a creare le famigerate abbreviazioni, presto divenute di uso comune come nel caso simbolo del “xké” in sostituzione di “perché” che, in un sol colpo, vide il “per” trasformato nella “x” come fosse una moltiplicazione ed il “ch” in una “k”. Poi si aprì l’era di Messenger, delle chat, dei social network e, infine, dei servizi di messaggistica istantanea: una vera sfida alla complessità del linguaggio e della scrittura, divenuta una confusa trasposizione di una lingua sempre più desacralizzata nei suoi aspetti morfologici e grammaticali e che privilegia l’immediatezza e la simultaneità di informazioni e sentimenti. Una nuova visione del comunicare, vocabolo derivante dal termine latino communis, ossia mettere in comune tra due o più persone esperienze, informazioni, pensieri ed emozioni. La comunicazione è un processo di scambio di informazioni e di influenzamento reciproco che avviene in un determinato contesto e incarna lo strumento principale di relazione che l’uomo ha a disposizione per creare e mantenere l’interazione con i suoi simili. La competenza comunicativa è quindi la capacità di un individuo di produrre e capire messaggi che lo pongono in interazione con gli altri. Questa capacità comprende non solo l’abilità linguistica e grammaticale di produrre e interpretare frasi, ma anche una serie di abilità sociali che consentono di saper adeguare il messaggio alla situazione specifica. La comunicazione quindi non è soltanto una trasmissione e una rappresentazione del vivere, ma può essere intesa come la vita stessa nelle sue molteplici interazioni. L’aspetto principale della comunicazione è la trasmissione dei messaggi. Il soggetto che invia messaggi a qualcun altro è l’emittente. Egli codifica il messaggio attraverso un codice, ovvero un insieme di regole che a loro volta dipendono da un complesso sistema di segni in uso. Il ricevente riesce a interpretare il messaggio se procede alla decodifica con lo stesso sistema adoperato dall’emittente. Il messaggio, per raggiungere il ricevente, ha bisogno di un canale su cui viaggiare, che è l’insieme delle modalità e dei mezzi di trasmissione (verbale, prosodico, paralinguistico, cinetico). Siamo, secondo Derrick de Kerckhove, ben lontani dalla rivoluzione della metà degli anni ’70. La nostra cultura dominante è quella che è stata definita dell’always on, sempre connessa. Una generazione caratterizzata dall’essere costantemente raggiungibile grazie al proprio dispositivo mobile. La novità dell’avvento dei new media non risiede tanto nella possibilità di contattare sempre e comunque un individuo distante da noi, quanto nell’aspetto qualitativo dell’atto di comunicazione: la trasformazione sociale legata alla rete ci consente infatti di inviare un’immagine di noi stessi, verbale o non verbale che sia, in movimento e in tempo reale. E dove la paratestualità non è più possibile, subentrano nuove modalità che sfruttano tutto ciò che la comunicazione web può fornire: dai simboli alle emoticons, dalla punteggiatura a strani neologismi. La mancanza di una norma o di una vera e propria grammatica ufficializzata comporta in tal senso non poche ambiguità nella dimensione comunicativa. Pensiamo alla punteggiatura, divenuto sintomo di perentorietà e di rifiuto. O ancora pensiamo all’eccesso dei segni di interpunzione, spia del fatto che non si ha l’attitudine ad articolare il pensiero in un discorso chiaro, coerente, compiuto, così come gli errori nell’utilizzo dei due punti e il sostanziale abbandono del punto e virgola. In realtà, le modifiche apportate a tali tradizionali segni ci indicano che il nostro modo di comunicare nell’era digitale sta subendo un mutamento linguistico, l’equivalente dell’evoluzione biologica applicato al linguaggio. Lo stesso De Keckhove, allievo di Marshall McLuhan, non a caso ha trasformato l’assioma “il medium è il messaggio” in “il network è il messaggio”. Tutte le critiche e le preoccupazioni in merito alla progressiva socializzazione del linguaggio trovano un equilibrio nella prospettiva di John McWorther, docente di linguistica presso la Columbia University: il texting, ovvero il linguaggio utilizzato negli SMS e nelle piattaforme social, rappresenta una categoria a sé, e per questo è dotato di propri modelli, regole e strutture, seppur in fieri. Dunque, afferma lo studioso, è sbagliato giudicarlo e analizzarlo con gli stessi strumenti utilizzati per lo studio linguistico tradizionale. Il texting si configura come una “quasi scrittura” più vicina alla forma del parlato con cui abbiamo comunicato per molti secoli, una nuova modalità d’espressione, non del tutto conscia negli utenti, che McWorther definisce finger writing. Il suo utilizzo, al fianco della loro abilità di scrittura ordinaria, è stato oggetto di uno studio condotto da Shazia Aziz intitolato “The impact of texting”: le prove alle quali sono stati sottoposti dei giovani universitari hanno dimostrato come il texting, monitorato da una conoscenza grammaticale e morfologica, abbia una influenza positiva a livello cognitivo, in quanto comporta un arricchimento del repertorio linguistico. Tuttavia, tale bilinguismo moderno è costantemente monitorato. Sfugge alla regola, così come sfugge lo statuto di regola. Ma il ritmo linguistico cambia, nuovi miti vengono abbandonati e un nuovo modo di pensare e riproporre le nostre sensazioni ci accompagna già nel quotidiano. Mentre stimola l’evoluzione di concetti tradizionali come quello di prestito culturale, la rete favorisce la creazione di neologismi e la metariflessione sulla lingua del web. L’esame specifico di alcune neoformazioni dimostra come, da un lato, si stiano accelerando i tempi di acquisizione nell’uso corrente di nuovi termini, mentre, dall’altro, si registrino altrettanto rapidi fenomeni di obsolescenza. Emerge, d’altra parte, un costante filtro da parte di collaudati meccanismi socioculturali: solo l’imporsi presso i vertici della cosiddetta piramide della blogosfera e l’autorevole accettazione di testate giornalistiche o di siti istituzionali possono efficacemente accreditare tali nuovi termini, favorendone così l’ingresso stabile nell’uso e, quindi, nei dizionari. Si pensi alla visione informatica del verbo salvare o alla connotazione tecnica assunta dal termine dominio. O ancora all’introduzione di prestiti formali come computer, file, password, blog, smartphone, e-mail. Inoltre si segnala l’adozione di lessemi, originariamente appartenenti ad altri ambiti semantici nella lingua inglese, con valore di “definizioni analogiche”, come mouse o desktop, la cui etimologia al parlante italiano appare tuttavia ormai opaca. Similare è il discorso per il recepimento di locuzioni, come digital divide, accolte recentemente anche nei dizionari. Altrettanto interessante, d’altra parte, è rilevare la penetrazione nell’uso di termini di cui esiste un equivalente consolidato nella lingua italiana, che tuttavia è privo della pregnanza tecnica del corrispondente straniero: così, nell’universo della rete, tende a prevalere la scelta di community rispetto a quella, peraltro non impropria, di comunità. Senza dimenticare la sostantivazione di aggettivi stranieri, che rimandano a espressioni di larga popolarità e di diffuso impiego. Ad esempio, se ci si riferisce ai social, il rimando è chiaramente legato ai social network o ai social media. Poi vi è la risemantizzazione di termini presenti nella lingua comune attraverso quello che Bloomfield definisce “accordo di definizione”. Un esempio è in tal senso la specifica declinazione di significato, nella lingua dei social network, del verbo condividere, spesso integrato da neologismi o prestiti formali come nell’espressione condividere un post. Siamo a tutti gli effetti dinanzi a quello che Arrigo Castellani definisce “morbus anglicus”. Particolare è in tale discorso il concetto di Blogosfera o Blogsfera, ovvero un calco dall’inglese blogosphere (o blogsphere). Il composto presenta il suffissoide –sfera, che rimanda a una consolidata sequenza di morfemi lessicali tratti dalle lingue classiche e appare largamente impiegato in molti altri termini dell’italiano, mentre il primo degli elementi formativi, ossia blog, è termine inglese ampiamente entrato nell’uso dell’italiano corrente insieme ai suoi derivati. Non solo: esistono sinonimi costruiti in modo simile, in particolare mediasfera, definibile come realtà complementare rispetto alla blogosfera. Nella blogosfera, illustra Pratellesi, vi è tanto rumore di fondo ma alcuni blog informano, altri producono esempi di eccellente giornalismo. Sul piano semantico, emerge una logica propria del sottocodice della rete: la creazione di un universo concettuale virtuale non può non rifarsi all’universo reale, generando sostanzialmente un ibrido. In effetti una delle più citate definizioni di blogosfera è quella di “comunità cognitiva” insieme a quella di “cyberspazio intellettuale”. Quest’ultima definizione, che risale al 2001, deriva dalla prima consapevole ripresa del termine in lingua inglese e si connette significativamente al vocabolo logosfera, che, sul piano morfologico, è richiamato direttamente da blogosfera. Peraltro, la difficoltà di una precisa definizione del termine ha portato diversi studiosi della rete a rappresentarne, attraverso metafore o altri strumenti retorici, il significato. Va infine rilevato che blog è un elemento formativo molto utilizzato nell’ambito di composti inglesi ripresi correntemente nel linguaggio specialistico dei nuovi media. In tale discorso si cala anche la contrapposizione ormai nota tra “digitale” e “analogico”, ovvero due modalità di rappresentazione della misura di una quantità. Analogica è, nel dettaglio, una grandezza che varia con continuità, dunque in grado di assumere un numero infinito di valori. Tale termine affonda le sue radici nell'unione di due parole greche e letteralmente è traducibile in "discorso simile" o "parola uguale" a seconda del contesto in cui è inserito. Con digitale si intende di contro una grandezza che varia “a salti” con un numero finito di valori. Tale vocabolo deriva dal termine anglosassone "digit", che significa "cifra" e non "numero" come spesso si tende erroneamente a credere. Secondo altre interpretazioni, il “quasi sinonimo” digitale = numerico deriva dal francese numérique, tant’è che per i francesi la televisione digitale è la télévision numérique.
Possiamo dedurre che il concetto di analogico è associabile ad una condizione di continuità, cioè in un probabile percorso qualcosa si muove mutando la sua collocazione attraverso infinite posizioni e definendole infinite escludiamo la possibilità di poterle numerare. Con il digitale, invece, lo stesso percorso verrebbe diviso in tappe e, anche se piccolissime e numerosissime, sarebbe sempre possibile determinarne la quantità.
Sotto il profilo giornalistico tale rivoluzione semantica ha reso, assieme alla stessa rete, tutto più veloce. Il giornalismo on-line nasce negli Stati Uniti nel 1992, quando alcuni piccoli quotidiani decidono di provare a pubblicare gli articoli sul web per cercare di avere maggiore visibilità. Le grandi testate sbarcano su internet nel 1993 riscuotendo, però, poco successo perché la versione on-line, oltre ad essere a pagamento, era la copia carbone della versione stampata. Non tutti i media tradizionali inizialmente sono riusciti ad intuire cosa rappresentasse realmente il giornalismo web e hanno cercato di applicare paradigmi del giornalismo classico cercando di declinarli in chiave attuale. L’errore è stato d’interpretazione in quanto non hanno compreso che è un universo completamente differente, innovativo. John Della Volpe, Director of Polling dell’Harvard Institute of Politics ed Eisenhower Fellow, ha sottolineato come l’influenza del modo di fruire delle informazioni operata dei cosiddetti Millennials, persone nate tra il 1980 e 2000, abbia comportato dei mutamenti sociali che stanno coinvolgendo e cambiando tutti gli aspetti della società. Il modo di fruire dell’informazione di questa generazione non è solo indicativo della loro predisposizione alla tecnologia, bensì intreccia sociologia, psicologia e new media per la creazione di un nuovo contesto di riferimento culturale. L’avvento dell’era digitale ha ampliato l’offerta dell’informazione facilitando la reperibilità di giornali e notizie provenienti da tutto il mondo e sviluppando, così, un pubblico potenziale più numeroso potendo coinvolgere anche persone che abitualmente non usufruivano dei media tradizionali. Il nuovo giornalismo è basato sulla partecipazione popolare, sul pensiero critico e su un abbattimento dei costi in grado di portare a una democratizzazione dell’accesso alle notizie e all’azzeramento delle distanze nella diffusione dell’informazione. La potenzialità di questa innovazione è immensa, perché può consentire ai giornalisti di far conoscere notizie a un pubblico più vasto. I giornalisti hanno dovuto, in tal contesto, affrontare una sostanziale diversità tra l’attività redazionale di un quotidiano cartaceo, che prevede una sola edizione al giorno, e quella di un giornale digitale che viene aggiornato in tempo reale con il susseguirsi delle notizie spesso pubblicate a gran velocità. E la differenza è anche nell’affrontare nuovi linguaggi e nuovi sistemi di comunicazione per poter adeguarsi ai mutamenti sociologici che derivano dalla possibilità creata dal web. Per Walter Passerini, ex direttore del Corriere della Sera, la battaglia etico professionale, oltre a quella della competenza, del sapere critico e della curiosità, consiste oggi nel distinguere il mestiere del giornalista dal mestiere del pubblicitario: il processo produttivo dei media è determinato dagli introiti pubblicitari e questo contamina anche l’informazione. È il caso di notizie prive di veri contenuti che, tuttavia, vengono pubblicate al fine di accaparrarsi le visualizzazioni e i guadagni ad esse annessi.
Il mondo giornalistico odierno è rappresentato da vari filoni di informazione che cercano, loro malgrado, di adeguarsi alle richieste presenti a volte cercando di mutare il loro percorso dal passato al presente, a volte interpretando le necessità dei lettori creando un nuovo modo di fare informazione e a volte percorrendo strade basate sui facili guadagni. Sta nascendo una nuova generazione di giornalisti con competenze multiple che consentono di realizzare gli articoli adeguandosi alla nuova lingua del web fatta di convergenza tra testo, fotografia, audio, video, gestione dei social e geolocalizzazione. Questa nuova leva deve cercare di comprendere la situazione sociale, la psicologia e le passioni dei suoi fruitori al fine di trovare la chiave per adattarsi alle loro necessità, non dimenticando, contestualmente, di eseguire il compito di ogni giornalista.
Il nuovo giornalismo è caratterizzato dal connubio dei fondamentali del giornalismo classico uniti a competenze originariamente disgiunte, come la sociologia, la psicologia e lo studio dei nuovi media. Con queste caratteristiche potrà mantenere il ruolo e la valenza che da sempre gli competono, adeguandosi ai cambiamenti sociali e alle innovazioni. D’altronde oggi, secondo l’ultimo rapporto Ucsi Censic, circa il 90 per cento dei giovani italiani si informa soltanto su Facebook e legge la realtà esclusivamente attraverso la lente digitale della rete. Sinonimo di come il giornalismo tradizionale stia svanendo con le sue regole e la sua materialità. Con le loro diversità giornalismo digitale e tradizionale non rappresentano due competitors, bensì due universi paralleli che pur operando sul medesimo materiale, sono lontani anni luce l’uno dall’altro. Il giornalismo tradizionale viene definito una modalità di comunicazione a senso unico: il giornalista comunica una notizia, una riflessione, un’idea, ed il lettore, che sia d’accordo o meno, non può far altro che farla propria senza poter replicare. In questa modalità di informazione manca qualsiasi genere di confronto, il quale può avvenire solo in un secondo momento, quando il lettore si confronta sulla notizia con amici, parenti o conoscenti. L’approccio del giornalismo digitale, invece, non è necessariamente testuale: il giornalismo sul web è fatto di suoni, immagini e video che danno la possibilità al lettore di interagire, contribuendo con le sue riflessioni, a costruire il testo, che non si limita alla notizia, bensì include anche il dibattito. Il giornalismo digitale, oltre che dei portali dedicati alla diffusione delle informazioni, si serve dei social network, Twitter e Facebook in primis: è qui che la diffusione della notizia si fa immediata e virale con gli annessi commenti degli utenti.
Lo spazio di pubblicazione delle notizie del giornalismo tradizionale è unico, il giornale o la rivista appunto, mentre il giornalismo digitale può diffondere le notizie su diversi canali, ciascuno dei quali deve essere affrontato con un linguaggio proprio, consono e vicino al pubblico.
Un linguaggio contro una molteplicità di linguaggi, un confronto che ha portato a un upgrade dei cinque punti cardine del giornalismo tradizionale. Alle “5W” (who – chi, what - cosa, when - quando, where - dove, why - perchè), Josh Stearns, digital writer e studioso della comunicazione in rete, propone di affiancare le “5C”: context, conversation, curation, community, collaboration. Si tratta, di fatto, di concetti divenuti fondamentali per il processo di newsgathering, la selezione delle notizie, quasi quanto sono le 5W, tuttora punti cardine, per il giornalismo tradizionale. Le 5C, nel dettaglio, sono così illustrate da Stearns:

-          Contesto: Il web dovrebbe essere prima di ogni altra cosa un portentoso strumento per aiutarci a dare un senso al mondo, per capire meglio i tempi e i luoghi nei quali viviamo. Ma le notizie si frammentano sempre più e il ritmo dai continui aggiornamenti richiesti dall’on-line ci porta a consumare le notizie senza contesto. Abbiamo un mare di aggiornamenti, ma ancora poca connessione capace di darci una visione più ampia di ogni singola notizia;

-          Conversazione: Il web dovrebbe essere una nuova piazza digitale, ma sappiamo tutti che la maggior parte delle sezioni di commento sono terre desolate di abusi e spam, e quando le conversazioni diventano interessanti troppo spesso risultano essere ingabbiate in “silos” nelle singole piattaforme private (come Facebook o Twitter) senza creare reciprocità. Serve curare queste conversazioni e riuscire a darne valore sia per le redazioni che per i lettori;

-          Cura (dei contenuti): Il flusso continuo di informazioni è una sfida per chi le notizie le consuma, ma è anche un’opportunità per le redazioni che possono rafforzare il loro ruolo di curatori degni di fiducia per l’accuratezza che mettono nel vagliare, verificare e tessere insieme le informazioni più interessanti a disposizione;

-          Comunità: Per decenni, molti giornali hanno goduto della loro posizione pressoché monopolistica a livello cittadino, garantendogli sostanziose entrate dalla pubblicità. E questo li ha portati a preoccuparsi molto poco della loro comunità di riferimento. Una realtà alla quale molte redazioni devono ancora adattarsi e capire come coinvolgere davvero le comunità dei lettori che oggi, tra l’altro, hanno un ruolo sempre più attivo nel raccogliere le notizie;

 -          Collaborazione: Per come oggi la notizia si è strutturata la collaborazione tra giornalisti, redazioni e cittadini è sempre più un elemento critico. Riduzione dei budget e tagli del personale complicano ancora di più il quadro. Questo ha portato molte redazioni piccole e grandi a collaborare, soprattutto in America, con startup innovative. Queste collaborazioni non sono solo correlate ai budget e alle risorse ma anche, con l’aiuto di nuove piattaforme, al raccontare le storie in modo diverso. La sfida è quindi anche nel creare e valorizzare nuove forme di collaborazione tra chi a vario titolo si occupa di informazione: redazioni, giornalisti freelance, nuove professioni e, non ultimi, cittadini.

Proprio nell’ottica della collaborazione è fondamentale un’opera di crowdsourcing, ovvero di coinvolgimento dei lettori nella raccolta e verifica delle informazioni poi inserite negli articoli o nelle inchieste. D’altronde, come illustrato da Alberto Papuzzi nel libro “Professione giornalista. Le tecniche, i media, le regole”, “il giornalismo partecipativo sovverte il modello classico del processo di produzione e fruizione della notizia: lo spettatore di un evento, presente sul posto prima del professionista, funge da porta di accesso ai fatti in modo diretto, diventando così egli stesso mediatore della realtà, guida e suggeritore”.
La mia esperienza personale sia nel campo del giornalismo tradizionale che in quello digitale mi spinge a sposare la teoria dell’impiego contemporaneo delle 5W e delle 5C in quelli che sono due contesti che da un lato differiscono e dall’altro si completano. La consapevolezza del cartaceo di essere all’atto di andata in stampa già superato dalle notizie live dei siti internet ormai diffuse anche di notte, lo ha di fatto tramutato in una vetrina di approfondimento con l’oggetto dell’articolo corredato da punti di vista e riflessioni e non solo dalla narrazione in sé che potrebbe contenere dati non aggiornati come nel caso del numero di vittime di una tragedia. Le testate online, al contrario, come ampiamente descritto in precedenza, producono un aggiornamento continuo delle news prediligendo spesso delle brevi e dei video a corredo di quello che è l’articolo principale cui essi sono sapientemente connessi da collegamenti ipertestuali. Differente è anche lo stile che adotto, maggiormente istituzionale e formale per gli articoli sui quotidiani al contrario di quello che, fatta eccezione per editoriali, inchieste o approfondimenti, risulta più informale e talvolta immediato nel caso delle testate online e, soprattutto, dei blog, la cui funzione richiede maggiore immediatezza nella fruizione dei concetti e dei contenuti che devono, in contemporanea, stimolare sempre più il lettore. Nel caso del cartaceo è, d’altra parte, il lettore a ricercare il giornale per leggere determinate notizie, nel caso della rete avviene spesso l’esatto contrario con gli utenti che sono il più delle volte stimolati dall’originalità di un titolo più che dalla notizia cui si troveranno di fronte al momento del clic sui social che stanno utilizzando in quel momento. Non è un caso, ad esempio, che durante la mia collaborazione con il sito di informazione sportiva Gianlucadimarzio.com mi fu richiesto di sposare la linea editoriale basata su un linguaggio giovanile e su pezzi il più delle volte inferiori alle mille battute. L’obiettivo era captare l’attenzione dei lettori fornendo direttamente la notizia al fine di accontentare la nuova figura di lettore “rapido” che spesso legge, per giunta distrattamente, solo perché intravede un link sui social network, in particolare Facebook e Twitter. Insomma, l’incisività preferita all’approfondimento per non annoiare l’utenza, tanto di guadagnato se poi tale politica porta alla pubblicazione di due o più brevi smembrando quello che, sui quotidiani cartacei, sarebbe stato il singolo articolo. Una metamorfosi nella metodologia come nel linguaggio, quest’ultimo ormai travolto anche a livello locale dagli anglicismi come l’informatico social, il politico exit poll o lo sportivo gol. Una trasformazione cui il giornalismo tradizionale è obbligato per non rischiare, in caso contrario, di risvegliarsi un giorno come il Gregor Samsa di Kafka, snaturato nella sua essenza ed emarginato dal mondo in quanto inteso come “diverso” dal contesto dalla comunità. O, per dirla nel linguaggio digitale, dalla community.

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