Pierre de Coubertin avrà esultato orgoglioso. Non solo i record di Bolt, i successi del Dream Team e le 28 medaglie azzurre, le Olimpiadi di Rio hanno regalato anche una pagina indelebile nella storia del fair play a firma della neozelandese Nikki Hamblin e dell’americana Abbey D’Agostino. Le due atlete, mai incrociatesi prima della batteria di qualificazione dei 5.000 metri femminili, hanno tagliato assieme il traguardo dopo una brutta caduta rimediata nella parte finale della gara. Il gruppo, abbastanza compatto nella sua totalità, rallenta d’improvviso causando lo scontro tra la Hamblin, che cade per prima, e la D’Agostino, che nella caduta poggia male il piede con conseguente torsione innaturale del ginocchio destro. Ed è proprio nel pieno del dramma sportivo che lo sport prevale sulla delusione. La 24enne americana prova a mettere da parte il dolore, si rialza e va ad aiutare l’avversaria incitandola a concludere la batteria. Le due atlete si aspettano e riprendono a correre assieme pur zoppicando vistosamente. La D’Agostino crolla al tappeto due volte ed in altrettante occasioni la Hamblin la aiuta a rialzarsi sorreggendola finché, quasi simultaneamente, tagliano il traguardo per ultime lasciandosi andare ad un commovente abbraccio che regala loro l’applauso dell’intero stadio Havelange dedicato all’ex presidente Fifa scomparso proprio ad agosto. Il Cio ha deciso di ammetterle ugualmente alla finale che la D’Agostino non ha potuto tuttavia correre avendo riportato la rottura del legamento crociato anteriore del ginocchio destro con una lesione del menisco e la elongazione del legamento collaterale mediale. La Hamblin, tutt’altro che nelle migliori condizioni, è invece giunta ultima in 16:14.24 nella gara vinta dalla kenyana Cheruiyot in 14:26.17 dinanzi alla connazionale Obiri e all’etiope Ayana. Prima europea la turca Can, giunta sesta con il tempo di 14:56.96. Non sarà dunque salita sul podio, ma Nikki Hamblin una medaglia l’ha comunque portata a casa seppur inattesa alla vigilia dei giochi. Si tratta della “Medaglia De Coubertin”, un tributo al valore riconosciuto a quegli atleti resisi protagonisti di gesti di fair play durante i giochi olimpici. «Sono felice di aver dimostrato che la competizione non deve per forza spazzare via tutto il resto – ha spiegato commossa l’atleta inglese, naturalizzata neozelandese, con accanto la D’Agostino –. Ero decisa a sfruttare i Giochi fino in fondo, a dare tutto in quella batteria. Ero carica, determinata e concentrata su me stessa, tuttavia l'idea di abbandonare Abbey dopo che mi aveva motivata non mi ha neanche minimamente sfiorato. Sapevo cosa era davvero importante in quel frangente». Il premio è stato assegnato solo a 17 atleti ed il primo della ristretta lista è stato Luz Long, il quale lo ha ricevuto alla memoria perché la medaglia De Coubertin esiste dal 1964. Long ha elogiato Jesse Owens durante i Giochi del 1936, ha esaltato la forza di un atleta nero nel bel mezzo di quelli che sono ricordati come i Giochi di Hitler. Lui, il tedesco diventato famoso per una foto con l'americano che ha segnato una pagina indelebile nella storia dello sport. Nell'elenco c'è anc
he un italiano, Eugenio Monti, il quale si è portato a casa il premio proprio nell'anno in cui l'hanno istituito. A Innsbruck, nel 1964, il bobbista azzurro ha prestato un bullone all'equipaggio britannico: loro hanno vinto l'oro, Monti e Sergio Siorpaes si sono fermati al bronzo. Anche Vanderlei Lima, il maratoneta che ha acceso il braciere a Rio, ha ricevuto la medaglia al valore, ma non perché un prete scomunicato lo ha bloccato sul percorso di Atene nel 2004. Piuttosto perché ha restituito l'oro che il giocatore di volley Emanuel Rego gli ha offerto come compensazione. Nel novero dei premiati anche il cecoslovacco Zatopek, gli austriaci Klee e Jonas, i canadesi Lemieux e Garneau, gli australiani McDonald e Harvey, lo svizzero Gafner, l’americano Eccles, l’altro neozelandese Umaga, la bielorussa Novikova-Belova, l’israeliano Ladany, i croati Cupac, Bulaja e Kostov, ed il singaporeano Hwang. Tributo che, se si fosse trattato di una gara olimpica, sarebbe di certo andato anche al podista spagnolo Ivan Fernandez Anaya che nel dicembre 2012 è divenuto famoso per un episodio altrettanto virtuoso con in ballo la vittoria. Nel finale della XXI corsa campestre Cross Hiru-Herri di Burlada, Trofeo Regno di Navarra, il keniota Abel Mutai, bronzo nei 3.000 siepi all’Olimpiade di Londra, rallentò il passo convinto di aver tagliato il traguardo dedicandosi così al saluto del pubblico. Ed è qui che accadde l’incredibile. Gli spettatori iniziarono a gridare all’atleta africano che la gara non era finita, mentre all’orizzonte ricomparve Anaya che, tra lo stupore generale, anziché superarlo decise di accompagnarlo al traguardo applaudito dai tifosi in visibilio. «A cento metri dal traguardo è successo di tutto – ha ammesso l’atleta spagnolo –, all’improvviso ho visto Mutai rallentare e rivolgersi agli spettatori che gli gridavano che la corsa non era finita senza che lui comprendesse cosa intendessero realmente. Quando l’ho raggiunto gli ho messo una mano sulla schiena e gli ho detto che la linea era più avanti, ma non capiva nemmeno me, cosicché ho deciso di accompagnarlo al traguardo. Era il minimo che potessi fare, aveva meritato il primo posto ed era lui l’unico vincitore. Rifarei ciò che ho fatto, lui è stato migliore di me in gara per cui non potevo beneficiare di un suo errore o di una sua piccola distrazione. Abel si è dimostrato nettamente superiore staccando tutti, non avrebbe avuto senso fregiarsi di aver battuto il bronzo olimpico in una simile circostanza. Alla fine ci siamo abbracciati perché lui non parla il castigliano ed io non me la cavo granché con l’inglese». Anaya è stato premiato a Doha con il riconoscimento Save The Dream 2013 consegnatogli dal Comitato Olimpico del Qatar. “L’importante non è vincere, ma partecipare” affermava Pierre de Coubertin, poter testimoniare che nell’epoca del successo, degli sponsor e del denaro tale insegnamento è ancor vivo nel cuore degli atleti professionisti è pura estasi mistica. Soprattutto quando lo sport diviene sinonimo di fratellanza ed integrazione vincendo su tutto, anche sul desiderio di tagliare per primi il traguardo.