Stabia: cultura antica e contemporanea

Gli scavi di Stabia approdano in consiglio comunale

Incuria e indifferenza ne ostacolano lo sviluppo.

di Antonio Ziino


Gli Scavi di Stabia sono ancora una volta al centro di un dibattito tra politici, forze   sociali e, naturalmente, i cittadini, di località Varano, molti dei quali,  da decenni abitano nella zona, una volta totalmente agricola, con antiche case coloniche e  masserie, poi, nel tempo, abbandonata, è stata parzialmente trasformata in area urbanizzata.
Di che cosa si tratta:
Il complesso archeologico, diviso in due grandi settori distanti circa un chilometro l'uno dall'altro, fu sepolto da ceneri e lapilli dall'eruzione del Vesuvio del 79.d.C., condividendo, così, la stessa sorte di Pompei, Ercolano e di altri centri dell'area vesuviana. Nel Settecento, i Borbone, nel corso della campagna di scavi promossa da Carlo III,  riportarono alla luce almeno 19 ville e altre case tra Castellammare di Stabia e Gragnano.
Il valore  storico-artistico
Si tratta di alcune belle ville, certamente meta di  villeggiatura di patrizi romani, appartenute forse al demanio imperiale  e, probabilmente, commissionate dalla ricca aristocrazia romana.
Degli edifici scavati, sono state lasciate preziose, dettagliate, planimetrie di tutta la zona utilizzate ancora oggi. Le ville presentano singolarità non riscontrabili in altre aree archeologiche (infatti, l'architettura stabiana, di concezione più funzionale che monumentale, è ricca di una veste decorativa considerata la migliore produzione di maestri che si sono elevati, dalle esperienze delle botteghe artigiane, all'espressione poetica di un fenomeno artistico degno di particolare rilievo).
La storia inizia nel 1700
Di quel periodo, dalle  notizie che sono state "tramandate" da Michele Ruggiero, primo direttore degli Scavi, un tecnico serio e coscienzioso, si apprende che: "Gli scavi di Gragnano (Stabia) ebbero cominciamento il dì 7 giugno 1749 con sei uomini ed un capo maestro nelle vicinanze del Ponte di S. Marco, dove in quel giorno medesimo s'incontrarono due vasi grandi e due piccoli di bronzo...", ecc., (Ruggiero). A Stabia, "si scavò per ventidue anni: quattordici dal 1749 al '62 ed otto dal 75 all'82, ma come portava la condizione del tempo e la qualità degli uomini che ne ebbero le prime cure - aggiunge il Ruggiero - piuttosto ad uso dei cercatori di antichità che di studiosi d'arte e di archeologia"
Mancato sviluppo
Dopo un silenzio durato oltre duecento anni, mentre Pompei ed Ercolano assurgevano ai fasti dell'archeologia mondiale, Stabiæ rimaneva, e in parte, rimane, anche dopo la ripresa degli scavi del 1950,  la sorella cenerentola per una serie di motivi che non ne hanno consentito l'adeguato  sviluppo.
Perché si è verificato ciò? Qualche spiegazione, comunque, è semplice darla: Invece di programmare, nel tempo, un graduale, progressivo sviluppo, l'orientamento è stato quello di progettare campagne di scavi e creazione di un vasto parco archeologico che interessa tutta Varano e comprende ora parte del Comune di Gragnano, dopo la realizzazione della nuova strada. E così sono trascorsi inutilmente decenni: di tanto in tanto qualche iniziativa del Comune, qualche volta della soprintendenza.
Ora vengono prospettati nuovi progetti, ipotesi di sondaggi e  "zona rossa"  e "zona gialla", sulle quali operare con un georadar per la probabile individuazione di eventuali superstiti  reperti archeologici ancora sepolti sotto tante case, "legali" o "abusive".
Una interpellanza con richiesta di convocazione del Consiglio Comunale, per discutere il problema, è stata presentata dai consiglieri  comunali  Eduardo Melisse (UDC), Giuseppe Mercatelli, Catello Napoli ed Aldo Esposito (Patto per Castellammare), Lorenzo Esposito (Stabia Rialzati) e  Nicola Corrado (Officina Democratica).
E' cambiato lo stato dei luoghi
Certamente, il cambiamento dello stato dei luoghi (il Ministero e le soprintendenze hanno autorizzato lo sbancamento del lapillo e di altri materiali e non hanno mai esercitato il diritto di prelazione nei casi di compra-vendita di case e terreni), rende estremamente difficile il recupero delle aree, mentre, si ripete da decenni, è possibile procedere seriamente alla valorizzazione graduale dei due importanti complessi già  riportanti alla luce sin dal 1950, per iniziativa del preside D'Orsi, per poi pensare ad altre organiche soluzioni.
Gli Scavi non segnano sostanziali progressi da 40 anni
Per avere un' idea di quanto stiamo dicendo, diamo un'occhiata a qualche cifra: Prendiamo come esempio Pompei, che rappresenta il più grande ed importante monumento all'aperto di epoca preromana e romana esistente al mondo, e vediamo che: nel 1965, i visitatori sono stati: agli Scavi pompeiani, 802.414; ad Ercolano, 66.435, a Stabia 2.670; oltre  40 anni dopo, i visitatori che si registrano sono: a Pompei, 2.253.633, ad Ercolano, 264.036, a Stabia, 32.669. Sono dati che dovrebbero far riflettere e che, invece, continuano a suscitare indifferenza.
Perché si è verificato tutto questo?
Perché è accaduto ciò? Ripetiamo. Perché ci inventiamo grandi complessi termali, grandi parchi alberghieri, grandi parchi archeologici, ma con poche  idee chiare e pochi  uomini giusti nei posti giusti. Come stabiese, diciamo che abbiamo avuto visioni megalomani senza avere il senso di  reali misure e possibilità.
Quindi, cosa diciamo oggi, anche come cronista? Ciò che ripetiamo da sempre (articoli sull'Osservatore Romano ed altri giornali a partire dal 1960!): cerchiamo di valorizzare le ville che sono state già riportate alla luce, proponiamoci di convogliare a Castellammare di Stabia più visitatori, più cultori dell'arte, più scuole di specializzazione, offrendo loro  - cosa che non è stata mai fatta - un minimo di confortevole accoglienza in termini di servizi essenziali.
Ora, va ripetuto, perché sia assolutamente chiaro, che il sottosuolo di tutta l'area presenta ruderi e reperti sparpagliati, di svariata natura che comunque (risparmiati dalle pale meccaniche utilizzate per l'estrazione legale e illegale del lapillo) non contribuirebbero alla ricostruzione organica dell'antico quartiere romano. Non va neanche dimenticato che gli stessi Borbone distrussero una enorme quantità di "anticaglie" allo scopo di evitare illeciti traffici tra mercanti napoletani e di Roma. Quanti credono che si possa procedere allo sgombro di tutta l'area di Varano e parte di Gragnano, per poi portare avanti il progetto del parco archeologico, si ritiene ipotesi utopistica e irrealizzabile, almeno per ora.
 
Che cosa si può fare ora?
Allora, per puntare su un effettivo rilancio degli Scavi, in tempi relativamente brevi, per l'ennesima volta, dopo almeno mezzo secolo trascorso tra colpevole disinteresse, incuria, devastazioni, alienazioni e speculazioni),  viene prospettata una soluzione seria ed obiettiva, quella di:
 
Circoscrivere i due settori, non ricongiungibili, considerata la distanza e le trasformazio

ni dello stato dei luoghi, tra i due più interessanti complessi: Scavo "Villa Arianna" con accesso (a valle) dal Poligono di Tiro, che già tiene; dalla Vicinale Varano (viale delle Puglie), che già tiene e dalla passeggiata archeologica; stessa cosa per il complesso  di "Villa S. Marco", accesso, a valle da Via Grotta S. Biagio, che già tiene e dalla Passeggiata Archeologica dove già esiste un ingresso principale.
 
Per evitare equivoci, fraintendimenti o strumentalizzazioni (perché non mancano "attivisti che per mestiere" creano confusione per trarne piccoli, inconfessabili profitti), si ricorda che tutti vogliono lo sviluppo dell'archeologia  anche se, a conti fatti, appena uno stabiese su cento ha visitato fugacemente  gli Scavi.
Quindi, nel contempo, è auspicabile un serio programma di sensibilizzazione e valorizzazione del patrimonio archeologico, già riportato alla luce.
Riparlando delle zone "rosse" e "gialle", si rimane alquanto sorpresi  dalle sortite del consigliere comunale dell'UDC, architetto Eduardo Melisse, il quale ha suggerito, appunto,  l'idea di procedere ad un rilevamento della zona attraverso l'impiego del georadar, strumento che consente  di avere - dice Melisse -  una radiografia del sottosuolo fino a 12 metri di profondità, al fine di verificare se queste case sono state realizzate su reperti archeologici o meno.
"Qualora una abitazione insiste su un bene archeologico - conclude l'architetto Melisse - onestamente la casa va demolita".
Ora - rilevamenti aerofotogrammetrici a parte - si dovrebbe sapere che il vasto territorio, con Varano e Gragnano, fu sepolto sotto una coltre di cenere e lapillo che solo in qualche parte (secondo la direzione dei venti) raggiunse circa i tre - quattro metri di altezza. Per cui viene da porsi una domanda: Che cosa si vuole cercare ora? Una città sannitica?, una città  etrusca? o greca o romana che, comunque risulterebbe distrutta  almeno come impianto urbano. O cerchiamo una seconda leggendaria Atlantide magari sprofondata in epoche remote?.
Poi, viene ancora da domandarsi, che senso avrebbe utilizzare un georadar che, in caso positivo dopo aver individuato anche un vano, un piccolo rudere, si butterebbero  giù case, poniamo distanti l'una dall'altra,  200,  150 metri e magari una terza casa da demolire a 500 metri, e così via... allargandosi fino al cosiddetto "Varano 2" che rientra nell'area. Così facendo, si creerebbe un parco archeologico? Si pensa in  tal modo di strapazzare i turisti da un muro  all'altro? Da una  colonna all'altra, da un pezzo di qualche arco ad un altro rudere? E poi, chi ci guadagnerebbe? Perderemmo visitatori appena recuperati che farebbero una cattiva  propaganda a Stabia.
Inoltre, chi valuterebbe l'importanza di un rudere? 
Oppure sui cittadini dovrebbe ricadere una nuova ingente spesa per una iniziativa  che, a lume di logica, non porterebbe ad alcun risultato?  Ma si sa, chi comanda ha il potere di disporre ciò che vuole e ai cittadini non rimane che subirne, quasi sempre, le conseguenze.
Ipotesi di valore inconsistente
Tale  ipotesi, che sembra umanamente irrealizzabile, almeno per il momento,  viene definita il "solito polverone" soffiato da chi vuole cogliere ogni occasione per  richiamare l'attenzione su un annoso problema che non si può risolvere, almeno per ora,  nella misura auspicabile, perché occorrerebbe procedere, obiettivamente, allo sgombro di centinaia di abitazioni esistenti, tra le quali molte di antichissima costruzione, e trovare soluzioni per gli "esodati", come si potrebbero chiamare oggi. Contemporaneamente, si dovrebbero requisire case e terreni da utilizzare per uffici ed altri servizi, come laboratori, musei, spazi verdi, ristoranti, bar, case-alloggio per studiosi e studenti italiani e stranieri, uffici turistici, parcheggi, strade interne, ecc.
 
Quali potrebbero essere i rischi?
 
Che cosa si potrebbe verificare? E' la domanda più scottante che molta gente, perplessa, si pone: Ecco. In caso dell'individuazione di un reperto archeologico sotto qualche casa, albergo, ristorante, azienda in attività, il reperto deve essere necessariamente "raggiunto" attraverso scavi, trivellazioni, viavai di gru, camion,  pale meccaniche, ecc. Il tutto tra i  cittadini che vi abitano. Facendo perdere, ovviamente,  la pace a centinaia di persone. E' giusto tutto ciò?
In caso di fallimento
Non solo, ma, si vuole aggiungere che in caso di fallimento di questo ennesimo "colpo di teatralità elettorale", bisogna  individuare gli autori del progetto e chiedere il risarcimento dei danni morali, civili. Oltre poi, all'eventuale intervento della magistratura per turbamento dell'ordine pubblico.
In vari periodi, diversi spazi sono stati adibiti a "scasso di auto", pascoli di animali, campi per ospitare terremotati, ecc.
Va anche precisato che nelle numerose occasioni di compra-vendite di terreni la Soprintendenza (prima il Ministero della Pubblica Istruzione)  non ha mai esercitato il diritto di prelazione e quindi i terreni sono finiti spesso anche in altre mani per altri usi.
Intanto, va ripetuto,  che la zona degli scavi è stata completamente abbandonata per decenni: ricordiamo che molti affreschi sparsi in aperta campagna, coperti solo da una lamiera, sono andati perduti, come perduti sono andati marmi delle piscine, strutture architettoniche, filari di caratteristici archi capovolti,  il famoso colonnato spiraliforme "orgoglio" del preside D'Orsi, e una enorme quantità di muri e reperti vari finiti sotto i cingoli delle pale meccaniche utilizzate per l'estrazione del lapillo previa autorizzazione delle soprintendenze (!), compreso la gran parte del muro in opus reticulatum nelle vicinanze del Ponte S. Marco, che costeggia l'antica strada Nuceria -_Stabiae - Surrentum, anche da noi numerose volte descritta qui. Ma non è certamente tutto.  Quando fu costruita la "strada archeologica" non si esitò a percorrere parte dell'antico tracciato romano che, ovviamente andò distrutto. Altri tratti di muri romani, delimitazioni di viottoli e un acquedotto antico andarono distrutti per far spazio alla nuova galleria.
Ormai, come è stato detto centinaia di volte, Stabia non riesce a decollare per anni di incuria, disinteresse, disinformazione, non solo da parte di amministratori che si sono succeduti nell'arco degli ultimi quarant'anni, ma anche da parte di gente che é apparsa sempre distratta nei confronti del vasto patrimonio archeologico stabiano, esprimendo spesso giudizi di sconcertante superficialità, soprattutto quando ha affermato, e continua ad affermare, che é necessario continuare lo scavo per riportare alla luce altre ville, senza pensare che prima bisogna restaurare le ville già riportate alla luce che sono costruzioni immense, iniziando, quindi,  effettivamente una concreta opera di sensibilizzazione e valorizzazione, e poi, certamente, continuare lo scavo. Non a caso i vecchi archeologi dicevano che prima di scavare era necessario restaurare ciò  che già era alla luce.
A questo punto al cronista, che molto ha scritto, molto ha visto e molto ha sentito...viene un dubbio, che, considerata la situazione, appare legittimo: A chi giova mantenere gli scavi stabiani in uno stato negletto e, probabilmente,  senza futuro?


sabato 1 settembre 2012 - 0.00 | © RIPRODUZIONE RISERVATA

 



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